I bambini si auto-educano (non hai nulla da insegnare loro)

educazione formazione leadership Apr 03, 2019

Ogni bambino che viene al mondo ha tutte le capacità per educare/realizzare se stesso, senza bisogno di essere diretto dall’esterno né di ricevere insegnamenti non esplicitamente richiesti. Eppure, nella nostra società ai bambini non è concesso di essere/divenire liberamente ciò che sono. Del tutto inconsapevoli e incapaci di comprendere la vera natura umana, imponiamo il nostro mondo su di loro, indottrinandoli e alienandoli da se stessi.

Nel corso della storia abbiamo acquisito una visione parecchio cinica dell’infanzia. Come insegna la vecchia pedagogia, a tutt’oggi pensiamo che il bambino è un non-ancora-adulto che si deve sottomettere alla nostra volontà, e conformare alle nostre aspettative, e che possiamo modellare a nostro piacimento.

Sullo stile del comportamentismo che ha dominato la psicologia del secolo scorso (e continua a esercitare un certo potere), il bambino è considerato alla stregua di un animale da addomesticare.

Abbiamo molta fretta di insegnare ai bambini (che sono anche un importante target per aziende, religioni, et cetera). Talmente tanta fretta di insegnare loro “come si sta al mondo” e “il modo giusto di fare questo o quello” che ci dimentichiamo una cosa molto importante: ovvero, che noi non abbiamo niente da insegnare ai bambini, abbiamo piuttosto da imparare.

Ipnotizzati a credere che il nostro ruolo di genitore debba essere quello dell’insegnante non lasciamo ai bambini lo spazio che necessitano per crescere verso la loro autonomia e indipendenza.

Li condizioniamo, dirottandoli dal vero asse della loro vita.

Interferendo continuamente nelle loro vite, li priviamo della libertà di sperimentare se stessi. Ciò ostacola il processo di apprendimento naturale e interferisce gravemente con lo sviluppo dell’individualità del bambino, che in questo modo svilupperà una falsa immagine di sé che governerà la sua vita osteggiando, o addirittura rendendo impossibile, la sua realizzazione personale.

I fatti dimostrati e le conoscenze che abbiamo oggi sull’infanzia ci dicono che i vecchi metodi educativi sono altamente condizionanti, e per non ripetere gli stessi errori che si tramandano di generazione in generazione dobbiamo disinserire il pilota automatico, uscire dai vecchi schemi e inserire la consapevolezza nella nostra quotidianità.

Dobbiamo partire da nuove premesse, e educare in modo diverso.

Il bambino non deve più essere visto come un recipiente vuoto da riempire con le nozioni della cultura dominante, o come un essere incompleto che deve sottomettersi alla volontà dell’adulto. Dobbiamo guardare ai bambini attraverso lenti nuove, come dei leader!

Il concetto è molto semplice: ogni bambino è un leader e questo implica seguire il bambino, consapevoli del fatto che egli ha una sua volontà personale e sappia cosa è meglio per lui, piuttosto che dirigerlo e indirizzarlo dove e come vogliamo noi. Certo, da un lato tutto ciò non è esattamente semplicissimo perché si tratta di un cambio di paradigma non indifferente che stravolge i parametri a cui siamo stati abituati attraverso la nostra formazione, istruzione, cultura.

Storicamente, se andiamo a sbirciare com’era la vita diecimila anni fa, le cose funzionavano esattamente in questo modo: nelle società dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori i bambini crescevano liberi, e diventavano adulti di successo educando se stessi. Poi è giunto il tempo dell’agricoltura, dell’industria, della scuola. Tutto è cambiato. La volontà personale dei bambini doveva essere annientata. Dovevano imparare a eseguire gli ordini e fare esattamente ciò che gli veniva detto. Questo, fino al secolo scorso: i bambini dovevano essere formati per soddisfare i bisogni dell’economia industrializzata, per diventare adulti compiacenti e produttivi. Ma oggi? Siamo nel XXI secolo. L’economia è mutata radicalmente e sempre meno esseri umani fanno e faranno dei lavori che possono essere automatizzati. Limitarsi a eseguire gli ordini è oggi un grave handicap, senza poi tenere in considerazione il fatto che se sei un lavoratore che può essere rimpiazzato (come da istruzione formale/tradizionale) e qualcuno può fare il tuo lavoro a un costo minore (macchina o uomo che sia) la sostituzione sarà presto una certezza. Siamo in una nuova economia, e per avere successo ci vuole imprenditorialità, perché allora ci ostiniamo a crescerete i nostri ragazzi attraverso dei metodi educativi obsoleti, che soffocano sistematicamente tutte quelle qualità (come curiosità, creatività, coraggio, audacia, motivazione, leadership) che oggi sono assolutamente indispensabili?

Molti faticano a comprendere come i bambini possano imparare senza che nessuno “li educhi”. Questo perché noi stessi siamo stati educati in un certo modo (a fare ciò che ci veniva detto!), e facciamo un po’ di fatica a contemplare delle vie alternative.

Eppure, ricordiamolo, qui non stiamo parlando di qualche teoria strampalata che propone l’esperto di turno o di qualcosa di totalmente alieno. È certamente qualcosa di straordinario, ma è proprio nella nostra natura esserlo (nessuno di noi è nato per vivere una vita banale, ordinaria, mediocre!). A testimonianza di come l’auto-apprendimento sia più in sintonia con i processi naturali di sviluppo del bambino (e anche molto più efficace), ci sono oggi migliaia di adulti realizzati e di successo che si sono auto-educati. Le evidenze più dirette e cristalline riguardano gli ambiti dove i bambini sono totalmente responsabili della loro educazione, come nel caso degli “unschoolers” e degli allievi che hanno frequentato delle scuole democratiche come la Sudbury Valley School, dove i bambini apprendono solo attraverso attività auto-dirette (le ricerche e le esperienze condivise dimostrano senza ombra di dubbio che questi ragazzi non hanno avuto alcuna difficoltà a accedere a college/università, e avere successo per quanto riguarda la vita accademica e la carriera).

In relazione a ciò, recentemente ho letto un libro molto interessante di John Holt: Learning all the time. L’autore sostiene che ai bambini non dobbiamo insegnare niente (che non sia esplicitamente richiesto dai bambini stessi). Dunque, non li dobbiamo forzare né manipolare, o pianificare in qualche modo il loro pensiero. Holt, lo dice molto chiaramente: i bambini possono, vogliono, sanno acquisire dal mondo che li circonda tutte le informazioni che necessitano per educare/realizzare se stessi, e il nostro compito è semplicemente quello di offrire loro tutte le opportunità per farlo, assistendoli nella loro esplorazione del mondo (qui si parte dal presupposto che imparare/apprendere significa dare un significato al mondo che ci circonda e essere in grado di fare sempre più cose in esso. In tal senso, ogni bambino è perfettamente unico e i modi di esplorazione sono i più disparati e inaspettati). Secondo il noto educatore statunitense l’istruzione primaria/secondaria può essere facilmente auto-appresa e non deve essere imposta.

Il suo pensiero mi trova perfettamente allineato, e siccome il libro non è disponibile in italiano, di seguito condividerò qualche riflessione sulle basi del suo scritto.

Iniziamo col dire che ognuno ha i suoi tempi e opera in base al proprio “orologio interiore”. Nella nostra società ci viene detto che a 4 anni dobbiamo saper fare X, a 7 Y, e a 10 Z ma questo è decisamente innaturale. Prendiamo la lettura ad esempio, come ha evidenziato anche John T. Gatto, docente dalla trentennale esperienza e Two-times NY State Best Teacher of the Year, un bambino impara a leggere magari prima dei quattro anni, un altro a 6 ed un altro a 8. A 10 non sarà possibile dire chi ha iniziato prima. Dunque, perché costringere tutti a imparare allo stesso modo, a una certa età, causando solamente problemi ai bambini? Lo sappiamo: i bambini non sono tutti uguali, non sono standard. Hanno una naturale tendenza a sviluppare ciò che serve loro, quando vogliono e quando sono pronti, senza che vi siano continue interferenze da parte di adulti-educatori che impongono attività e contenuti con l’obiettivo di inculcare nelle loro testoline le competenze e gli skills che loro stessi ritengono necessari/fondamentali.

È davvero molto importante concedere la più ampia libertà al bambino, e anche come genitori abbandonare una volta per tutte quella “mentalità scolastica” che abbiamo adottato e che ci porta a indossare i panni del “maestro” e voler a tutti i costi insegnare. A meno che non sia esplicitamente richiesto, al bambino non dobbiamo insegnare niente.

Riflettiamo su qualche aspetto importante: i bambini comunicano sin da subito, da quando sono nati. Nel corso dei primi mesi di vita, i suoni che cercano di emettere e i versetti che fanno non sono semplici imitazioni ma un vero e proprio tentativo di veicolare dei messaggi (che troppo spesso non comprendiamo, perché li prendiamo sottogamba e sottovalutiamo queste nozioni). Per loro non è facile farsi capire da noi adulti (non perché non siano bravi comunicatori, ma piuttosto a causa nostra) e questo diventa molto frustrante, soprattutto quando comprendono di non essere mai stati veramente capiti. E questo accade quando hanno circa due anni (chi prima, chi dopo). Anche di questo dovremmo tener conto quando si parla dei famigerati “terrible two”. Proviamo a metterci nei loro panni: si rendono conto che non li abbiamo mai capiti, iniziano a sperimentare emozioni, sentimenti et cetera che non riescono ad articolare, e non riescono a esprimere a parole ciò che provano… e quanta frustrazione per cercare non solo di spiegarsi, ma di farsi capire da noi adulti...!

Imparare a parlare non è facile, anzi. Se proviamo a imparare una nuova lingua (e.g. tedesco, inglese, francese per non parlare di russo, cinese, giapponese) scopriamo che richiede un certo sforzo. Si tratta di un compito arduo per i bambini ma loro ci riescono benissimo, in modo naturale, senza che noi glielo insegniamo (e forse proprio per questo imparano così bene!). Prima di iniziare le scuole hanno già imparato circa 5'000 parole, a coniugare i verbi et cetera. Un lavoro davvero straordinario. Eccezionale.

Inoltre, nei primi quattro-cinque anni di vita imparano un’infinità di altre cose da soli… e perché questo non sarebbe possibile con tutto il resto? Come ha detto Seymour Papert (matematico e scienziato dei laboratori di intelligenza artificiale del MIT), "tutto ciò che c’è da apprendere può essere appreso così come il bambino impara a parlare, in modo indolore, con successo, e senza un’istruzione formale/organizzata."

Prendiamo nuovamente come esempio la lettura.

Anche in questo caso possiamo fare un’analogia con il parlare. Come abbiamo visto e sappiamo, i bambini si preparano a parlare sentendo gli adulti che parlano fra loro, molto prima che a qualcuno venga in mente di insegnare loro a parlare. Intuiscono che comunicare attraverso la voce è qualcosa di importante e imparano semplicemente osservando e ascoltando come parlano gli adulti normalmente, senza che venga loro dato un modello da imparare. Apprendono perché sono circondati da persone che parlano, e anche perché loro stessi hanno qualcosa qualcosa da dire.

Per questo, se da un lato è molto importante che ai bambini sia concesso di essere presenti quando gli adulti parlano tra loro (per il parlare), è altresì fondamentale che i bambini siano immersi nelle lettere, e questo non è molto difficile da fare visto che dalle lettere siamo letteralmente circondati. Come scrive Holt, per prepararsi a leggere non dobbiamo mostrare ai bambini dei libretti con delle immagini e porre sciocche domande (come suggeriscono di fare tanti esperti) ma offrire loro l’opportunità di avere accesso al materiale scritto del (e nel) mondo degli adulti (lettere, giornali, fatture, contratti, riviste, magazine, libri, et cetera).

Nella foto in cima al post, mio figlio più piccolo, che ora ha 7 mesi è alle prese con un libro che anche molti adulti potrebbero considerare come un “mattone” (Death and Life of Philosophy, di Robert Greene). Lo stavo leggendo e lui era molto incuriosito e affascinato da quel libro pieno di lettere. Per ora probabilmente gli appariranno solo come dei geroglifici incomprensibili, ma un giorno acquisteranno significato, ed è proprio questo a essere importante.

Il significato ricopre un ruolo fondamentale nelle nostre vite, e i bambini vogliono scoprire e dare un senso al mondo. Il modo migliore per educarli a non leggere è proprio quello di obbligarli a leggere qualcosa che per loro di significato non ne ha, come delle storie stupide e noiose. Questo è infatti un grosso problema perché nel corso degli anni si è pensato che i libri dei bambini erano troppo difficili e così sono stati modificati per essere più semplici e con meno parole. I primi libri per bambini contenevano 645 parole diverse (nel 1920). Nel 1962 si era già scesi a 153… Questo tentativo di rendere le cose più semplici è in realtà molto limitante, esattamente come parlare ai bambini piccoli in “bambinese” e non normalmente.

Come sottolineano Leonard Bloomfield e Clarence Barnhart, autori di Let’s read (e menzionati da Holt nel suo libro) imparare a leggere è facile. I bambini imparano molto velocemente e molto meglio quando lo fanno per piacere, senza che nessuno insegni loro, senza che nessuno faccia loro dei test o cerchi di aiutarli a meno che l’aiuto non sia esplicitamente richiesto.

L’importante è che libri etc. siano a portata dei bambini (e non messi in un singolo punto, come magari in una libreria e troppo in alto per essere raggiunti). Quando richiesto, l’adulto può leggere ad alta voce le loro storie preferite; e quando loro iniziano a leggere poco importa se non comprendono tutte le parole o fanno qualche errore. È importante non correggerli, e lasciare che estrapolino il significato dal contesto, da soli (che è una dote fondamentale per un buon lettore).

Al contrario, dicendo al bambino cosa significano le parole oppure chiedendogli di rivolgersi al dizionario ogniqualvolta incontrano delle parole nuove, quel che stiamo facendo è impedir loro di scoprire il significato delle parole dal contesto. Quando ci mettiamo nei panni dell’insegnante, stiamo in realtà già ottenendo l’effetto opposto da quello desiderato perché così facendo distruggiamo la fiducia che i bambini hanno in se stessi, e li portiamo a pensare che le risposte ai loro quesiti le possano trovare solo dagli altri.

Insomma, saper parlare e leggere sono una dote innata che i bambini hanno. Se noi adulti leggiamo e scriviamo i bambini faranno lo stesso. Ovviamente, lo faranno di meno in famiglie dove gli adulti non amano molto leggere/scrivere.

Così come per le lettere, anche i numeri li troviamo dappertutto. Nella nostra vita di tutti i giorni siamo confrontati con i calcoli, ma ciò di cui abbiamo bisogno è la matematica di base, non avanzata. Lo spiega molto bene John Bennet, docente di matematica, in questo video.

Anche qui, sin dal principio facciamo degli errori molto grossolani, soprattutto non coinvolgendo i bambini nelle nostre attività quotidiane. Ai bambini interessa molto ciò che facciamo. Hanno sete di apprendere. Ma noi, in generale, facciamo delle distinzioni molto nette fra le “cose da grandi” e le “cose da bambini”, come se ai bambini non importasse nulla del mondo degli adulti, e dovessero occuparsi solo di intrattenersi con qualche giocattolo che abbiamo comperato apposta per loro.

Li sottovalutiamo tantissimo e questo è uno dei più grossi problemi.

E con l’aritmetica cosa facciamo? Ci aspettiamo che a scuola imparino tonnellate di cose noiose a memoria prima di poterle utilizzarle in modo concreto. Eppure, la matematica dovrebbe servire per risolvere dei problemi e essere un divertimento, non una pena. Vi sono molti altri modi di imparare e sviluppare le necessarie capacità analitiche (e.g. ragionamento deduttivo e induttivo, et cetera), attraverso giochi o programmi di computer ad esempio (per gli interessati rimando al libro “Mindstorm” di Seymour Papert) senza che le abilità che i bambini hanno di apprendere vengano letteralmente anestetizzate dal curriculum classico.

Secondo Holt, il metodo migliore per imparare i numeri non è quello di memorizzarli come se fossero uno strano linguaggio, ma averci a che fare. È importante vedere come funzionano e usarli i numeri. Così, senza doverli imparare, si inizia a conoscerli, e si acquisisce una certa familiarità (non si memorizzano, si sanno!). Esattamente come succede con la parola.

La cosa più importante è che concediamo ai nostri figli tutto lo spazio che necessitano. Il processo attraverso cui i bambini apprendono è decisamente molto simile, se non uguale, a come si comporta uno scienziato in laboratorio ed è proprio così che i bambini trasformano l’esperienza in conoscenza. Per questo motivo noi non dobbiamo tentare di dirigere la loro attenzione o cercare di aiutarli, a meno che non siano loro a richiederlo esplicitamente.

Se li osserviamo attentamente, vediamo come i bambini sono letteralmente affamati di dare un senso a ciò che li circonda. Come sottolinea Holt, se noi cerchiamo di controllare o manipolare in qualche modo questi processi di apprendimento stiamo interferendo, e se le interferenze continuano, rischiamo di soffocare lo scienziato interiore che è in loro.

Un’altra cosa molto importante da comprendere è che i bambini non acquisiscono conoscenze, ma creano conoscenza: osservano, teorizzano, testano, rivedono le loro teorie, et cetera. Non ne sono coscienti (nel senso che se glielo chiediamo non ci sanno spiegare come fanno), ma è proprio in questo modo che apprendono. Anche per questo è fondamentale concedere loro tutto il tempo di cui hanno necessità.

Inoltre, per molti versi noi adulti rischiamo sempre di essere troppo astratti. Ad esempio, pensiamo ai numeri da 1 a 10. Noi pretendiamo che un bambino piccolo impari a contare nel modo in cui noi abbiamo imparato, ma che senso possono avere per lui (o al tempo per noi) questi numeri: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 se non collegati concretamente qualcosa di reale come UNA macchina, DUE polpette, TRE bicchieri, et cetera? Come ci ricorda Holt, i bambini sono appassionatamente interessati alla vita reale e a dare un significato al mondo che li circonda. Più di noi adulti se per questo… e per fare ciò hanno bisogno di spazio e di tempo... e di concretezza.

Hanno bisogno di fare le loro connessioni e di “unire i punti” da soli. In fondo, l’apprendimento è un processo di scoperta… e  quel che noi possiamo fare per supportarli è rendere il mondo più accessibile (e.g. persone, lavoro, libri, strumenti, luoghi, risorse) e renderli partecipi delle nostre vite.

Ciò che noi adulti abbiamo in più dei bambini è l’esperienza. È da più tempo che siamo al mondo e ognuno di noi ha la sua storia da raccontare. I bambini vogliono essere coinvolti in ciò che facciamo, anche a livello lavorativo. Perché non coinvolgerli? Molti non lo fanno perché pensano che il proprio lavoro non sia granché interessante, o perché ritengono che il lavoro sia una cosa da “grandi” mentre i bambini si devono occupare di faccende “da bambini” ma in realtà non è così. I bimbi sono interessati a fare cose serie, e non “cose di scuola” e di certo sono molto più affascinati da ciò che l’adulto fa nella realtà, piuttosto che qualche cosa che si pensa debbano imparare ma che è totalmetne scollegata dalla realtà (come accade a scuola). Un errore che non dobbiamo fare è appunto escluderli dalla nostra vita di tutti i giorni perché li riteniamo troppo piccoli, o stupidi (“sono solo bambini, non possono capire”).

Un’altra cosa fondamentale è che noi non dobbiamo imporre la nostra verità sui nostri figli, ma semmai supportarli nel ricercare la loro. Per questo motivo, dobbiamo essere anche molto attenti alle loro domande. Questo, in generale, soprattutto a partire da quando inizia la fase dei “perché?” e/o dei “come mai?”. La tendenza è infatti quella di insegnare. Noi dobbiamo invece limitarci a rispondere alla domanda, senza andare troppo in profondità o cercare di trasmettere qualche insegnamento, perché in questo modo stiamo soffocando la curiosità del bambino che prenderà per vero ciò che noi abbiamo detto, senza fare ulteriori ricerche. Inoltre, se non sappiamo la risposta... non la dobbiamo inventare ma essere umili e ammettere di non saperlo (noi genitori non dobbiamo sapere tutto...) e se caso ricercare insieme la risposta, discuterne, aprire la conversazione... et cetera (insomma, imparare e crescere insieme).

Metto l’accento sulla questione dell’insegnamento perché per noi tutti questa è una cosa abbastanza difficile da comprendere e da applicare. In ogni ambito siamo molto frettolosi, e questo sin da quando il bambino è piccolo, a insegnare come si fa questo o quello. Riteniamo di avere la verità in tasca (e di sapere tutto), e che come facciamo noi questo e quello sia il modo giusto… e la tendenza è quella di trasmetterlo, di insegnarlo, non permettendo ai nostri figli di sviluppare il loro modo.

In questo caso sorgono dei problemi perché la maggior parte delle cose che vengono insegnate senza essere esplicitamente richieste non risultano in un apprendimento. Il messaggio che passa è: “ti insegno io come si fa perché tu sei un incapace, e non sei all’altezza di imparare da solo” e va a incidere in modo molto negativo per quanto riguarda l’autostima e la fiducia in se stessi. Questo crea inoltre sfiducia nei confronti dell’adulto. Il bambino si sente offeso, incapace, arrabbiato. A tutti i genitori è sicuramente capitato di sentirsi rispondere dal bambino “mamma/papà, faccio da solo!”. Ecco, è importantissimo lasciarlo fare, senza interferire.

Ovviamente, per sperimentare la vita e il mondo il bambino ha bisogno di tempo. E noi dobbiamo concederglielo. Anche questa è una nostra responsabilità. Ha bisogno del tempo per fare, per capire, per integrare, per apprendere! Anche per annoiarsi se per questo. Noi adulti abbiamo invece la tendenza a intervenire subito quando il bambino “non sta facendo niente” in modo tale da occupare il suo tempo, da “strutturarlo”… quando invece anche essere annoiati o distratti oppure stare quell’attimo “a far niente” è parte integrante della crescita, dello sviluppo, della vita. Fondamentale, dunque, resistere all’impulso di dire loro cosa fare e di organizzare tutto il loro tempo.

Il concetto è molto semplice, non sta a noi dirigere la vita dei nostri figli, né tantomeno correggerli tutto il tempo. I bambini, come ha sottolineato anche il Prof. Peter Grey, vengono al mondo biologicamente programmati per educare se stessi, e si sanno auto-correggere. Necessitano solo di tempo, e di essere lasciati liberi senza che nessuno intervenga immediatamente a correggere gli errori che fanno mentre stanno imparando.

Holt è stato molto chiaro anche su questo punto: “I bambini hanno i loro stili di apprendimento, ognuno unico. Hanno anche la loro tabella di marcia, in base alla quale sono pronti a fare le cose, la velocità per farle, e il tempo che ci vuole per passare a qualcosa di nuovo. Quando noi invece proviamo a dirigere, interferire o modificare questi stili e orari di apprendimento, quasi sempre li rallentiamo o blocchiamo del tutto.”

Oltre a questo, non vanno elogiati. Purtroppo, crediamo che la lode rafforzi l’autostima e il concetto che i bambini hanno di sé ma non è così che funziona. Il rischio è quello che il bambino diventi completamente dipendente dall’approvazione dei genitori. Anche in questo caso vi è lo zampino della psicologia comportamentale… e molti pensano addirittura che la motivazione intrinseca non esista. Che il bambino debba essere giocoforza motivato dall’esterno, attraverso la logica del rinforzo (sistema delle punizioni e ricompense). Questo è un grosso errore e ha delle conseguenze molto negative in termini di: motivazione, sviluppo di una mentalità fissa, sviluppo di un sentimento di autostima contingente, sviluppo di un luogo di controllo esterno, perdita di slancio vitale e creativo (leggi qui). Anche in questo caso, l’autore americano è stato molto elegante nella sua spiegazione, sostenendo che il problema principale della motivazione dall’esterno, che sia negativa (punizioni, rimproveri, et cetera) o positiva (stelline, caramelle, voti, et cetera) è che soffoca la motivazione interna, intrinseca. Il punto è questo: i bambini non apprendono per far piacere ai genitori, ma perché è nella loro natura scoprire il mondo. Se noi li elogiamo per tutto ciò che fanno, dopo un po’ inizieranno a imparare e fare le cose solo per farci piacere, e il passo successivo sarà quello di sviluppare la preoccupazione/paura di sbagliare, e di non ricevere la nostra approvazione. Oltre a questo, attraverso questa continua ricerca di approvazione (avvertono letteralmente l’obbligo di soddisfare determinati requisiti per essere accettati) svilupperanno una falsa immagine di sé, perdendo il contatto con la loro vera essenza (come ha spiegato Carl Rogers, quando l’amore dei genitori dipende dal comportamento dei figli, i destinatari di questo amore inizieranno a negare delle parti di sé che non vengono approvate, e pensare/agire solo secondo le aspettative).

Quel che dobbiamo fare è partire da premesse diverse e abbandonare le vecchie teorie e la vecchia mentalità che vede i bambini come un vuoto creativo da riempire attraverso quello che sembra più un processo industriale che un percorso educativo. Abbiamo questa folle idea che sia l’insegnamento a produrre l’apprendimento, e che serva sempre “più educazione!”… nel senso di “più scuola!”… e le tecniche che usiamo per “educare” i nostri figli sono esattamente quelle utilizzate per il controllo del comportamento animale. In fondo, l’idea di base che avevano Thorndike, Pavlov, Skinner della natura umana è proprio questa: un animale da laboratorio, il cui comportamento può essere telecomandato a suon di punizioni e ricompense.

Se per questo, anche la scuola funziona esattamente in questo modo. Per di più, quando i risultati sono buoni/ottimi la scuola si prende tutto il merito. Se invece non lo sono, è l’allievo da incolpare. La scuola che tutti noi conosciamo non insegna nel modo in cui i ragazzi apprendono, e quando non lo fanno (nel senso che non apprendono/imparano) vengono dipinti come dei fannulloni, nullafacenti, addirittura disturbati. Insomma, hanno difficoltà di apprendimento. Con questo non voglio assolutamente dire che le difficoltà di apprendimento siano una pura invenzione, e certamente vi sono dei ragazzi che hanno purtroppo dei problemi, ma è altresì da prendere in considerazione che molti di questi “disturbi” siano piuttosto legati allo stress o comunque a un processo di apprendimento forzato e innaturale In una ricerca sugli allievi della Sudbury Valley School condotta da Peter Grey (ulteriori informazioni qui e qui), si evince che molti allievi che hanno iniziato a frequentare la scuola dopo essere diagnosticati con qualche disturbo dell’apprendimento nella scuola pubblica, quando sono poi andati al college di disturbi non ve n’era più traccia. Questo è certamente un argomento che va approfondito.

Uno dei tanti problemi del nostro sistema scolastico è che si focalizza in modo davvero esagerato sui test standardizzati. Sembra infatti che l’obiettivo sia preparare i ragazzi per questi test, e non per la vita e per il mondo reale. Che sia sottoporre continuamente i ragazzi a test/diagnosi per scoprire ciò che non sanno e ciò che non va. Si parte infatti da una visione parecchio negativa dei giovani, pensando che non sono interessati ad apprendere, che non hanno voglia, che non sono capaci e che non impareranno mai un tubo a meno che non gli si insegnano le cose attraverso del materiale appositamente studiato e preconfezionato: materiale suddiviso/frammentato in piccoli compiti da padroneggiare uno alla volta ciascuno con il suo bastone e la sua carota. E quando questo metodo non funziona… beh, la colpa è ovviamente dei ragazzi che hanno delle difficoltà di apprendimento, da diagnosticare e da curare.

Tutto questo è un enorme errore, e attraverso questi metodi li stiamo rovinando i bambini. Stiamo soffocando la loro innata curiosità, creatività, genialità. Anche la scienza moderna sta sempre più dimostrando che le teorie di quella vecchia psicologia che vede il bambino come una tabula rasa non sono niente di più di ciò che sono: delle teorie… sbagliate!

Gli scienziati del Massachusetts Institute of Technology (MIT) che lavorano agli sviluppi nel campo dell’Intelligenza Artificiale (AI) non hanno dubbi su questo, e le nuove ricerche sul cervello dimostrano che le vecchie teorie non corrispondono alla realtà dei fatti. Per quanto riguarda gli sviluppi del’AI, è interessante notare che molto lavoro è stato svolto sulle basi delle ricerche di Alan Turing, considerato uno dei più grandi matematici del XX secolo. Negli anni ’50, il creatore del “test di Turing”, criterio per determinare l’intelligenza di una macchina, era partito dall’idea che il cervello di un bambino è qualcosa di meno di quello dell’adulto e che è paragonabile a una quaderno, un notebook pieno di pagine bianche. Riferendosi ai progressi in campo AI, il Prof. di scienze cognitive Josh Tenenbaum ha affermato: “Sappiamo che Turing aveva una mente brillante, ma su questo ha sbagliato… e come conseguenza hanno sbagliato molti altri che hanno basato il loro lavoro sulle sue ricerche…”. Tutto sbagliato dall’inizio, insomma. Questo perché l’intelligenza non è solo identificare/riconoscere degli schemi, ma è molto di più. Per questo motivo, scienziati e ricercatori rivolgono ora il loro sguardo nuovamente verso i bambini, guardandoli con occhi diversi, come una preziosa fonte di informazioni su come gli esseri umani apprendono.

I bambini sono molto curiosi e vogliono dare un senso al mondo. Per loro vivere e apprendere sono esattamente la stessa cosa. Non ci sono differenze. Apprendono da ogni cosa che vedono e che fanno, da tutte le loro esperienze. E imparano molto velocemente, e molto meglio di noi adulti se per questo. Molti insegnanti di prestigio, come John Holt, John T. Gatto e John Bennett (pare che il nome sia intimamente legato all'educazione... :-)) lo hanno scoperto con un certo rammarico: meno si insegna ai bambini, e più imparano!

Tutto questo richiede un certo sforzo anche a noi genitori, che non siamo formati come docenti (e molto maggiore per gli insegnanti!). In fondo, siamo degli animali sociali, delle creature con l’innato dono di apprendere… e l’istinto di insegnare… e proprio a quest’ultimo dobbiamo mettere un freno. Dobbiamo dare più fiducia ai nostri figli, che sanno perfettamente quel che vogliono e ciò di cui hanno bisogno. Sono degli ottimi comunicatori, sin da piccolissimi… e se noi cerchiamo di capire cosa ci vogliono comunicare, invece che punirli o farli sentire in questo o quel modo per ciò che fanno loro ci dicono tutto ciò di cui hanno necessità. Non dobbiamo dunque soffocarli, né utilizzare tecniche e metodi per far fare loro ciò che noi vogliamo. Ripeto: dobbiamo avere la massima fiducia in loro (e questo non è facile, per il semplice fatto che non è mai stata concessa la fiducia a noi… e come conseguenza facciamo molta fatica a fidarci, sia di noi stessi che degli altri).

I bambini sanno esattamente dove stanno andando. Noi dobbiamo avere completa fiducia nella loro abilità di trovare la loro strada e supportarli nel realizzare ciò che vogliono. Senza interferenze, senza condizionamenti, senza imporre la nostra volontà sulla loro.

Noi genitori dobbiamo cambiare e abbandonare i vecchi metodi educativi attraverso cui sono cresciuti i nostri nonni, i nostri genitori e molti di noi. E anche le scuole devono cambiare. La scuola, così com’è impostata, non ha futuro. Paradossalmente, le scuole (luoghi dove noi pensiamo che il bambino venga educato e impari) sono altamente limitanti per i bambini. Sembra quasi che il loro scopo sia quello di identificare quel che il bambino non sa, o che in qualche modo non ha memorizzato. In natura, invece, il bambino progredisce naturalmente verso compiti più difficili e complessi, senza problemi. E questo i bambini lo fanno fino a quando iniziano le scuole dell’obbligo. A quel punto, le sfide che si trovano a fronteggiare sono viste dal bambino come una vera e propria minaccia (e spesso lo sono!). Sono consapevoli del fatto che se sbagliano, se falliscono (e qui nasce la paura del fallimento, altamente limitante nella nostra economia) si dovranno confrontare con la vergogna, con l’umiliazione, o magari anche con la violenza (in Cina, ad esempio, i bambini che non ottengono alti punteggi a scuola vengono picchiati dai genitori) e così perdono la loro capacità di sfidare/migliorare se stessi, adagiandosi nella mediocrità.

La scuola del futuro non sarà più come quella che molti di noi abbiamo conosciuto (che, ricordiamolo, sono nate come investimento per il nostro futuro economico sulle basi del fabbisogno dell’economia industrializzata: formare adulti compiacenti e produttivi che avrebbero lavorato bene nel sistema). L’esempio della Sudbury Valley School e di scuole basate su questo modello ci offrono un’idea di come saranno queste scuole. Alcuni aspetti che le contraddistinguono: i bambini sono responsabili della loro educazione, e non sono obbligati a fare ciò che viene loro detto (il bambino si assume le sue responsabilità quando gli viene concesso). I bambini hanno illimitate possibilità di giocare e usare gli strumenti della nostra cultura (che oggi sono computer, tablet, smartphone). Altrimenti, come possono seguire la loro vocazione e le loro passioni se vengono interrotti di continuo da orari fissi, campanelle et cetera? Chiunque ha per mestiere la sua passione sa benissimo che le continue interruzioni del focus sono altamente controproducenti, e non permettono di realizzare niente. Oltre a ciò, è molto importante che i bambini non siano segregati in aule e divisi per età, ma che abbiano la possibilità di confrontarsi anche con ragazzi più grandi e bimbi più piccoli (ad esempio fascia età 4-18) e con una varietà di adulti-facilititatori (non giudici-educatori).

Educazione, ricordiamolo, non è scolarizzazione. Come sottolinea l’Alliance for Self-Directed Education, la vera educazione “deriva dalle attività auto-dirette e dalle esperienze di vita dell’individuo”. Si tratta della somma di tutto ciò che una persona impara e che le permette di vivere una vita gratificante e significativa. E qui è molto importante ribadire che si impara dalla vita di tutti i giorni seguendo i propri interessi, e le forze o “drivers” alla base della motivazione sono: curiosità, giocosità, socializzazione versus imposizioni e forzature che sono imposte indipendentemente dai desideri della persona, attraverso un sistema di punizioni e ricompense (infatti, nel comportamentismo tutto è visto esclusivamente in base al comportamento, e non si tiene conto dei motivi, dei pensieri, dei sentimenti, delle intenzioni di base. Insomma, non si tiene conto di ciò che pensano, sentono, provano e sono i bambini e neppure di quella che è la loro vocazione… ma ci si preoccupa solo di modificare il loro comportamento in base ai propri interessi).

Riassumendo, il bambino è perfettamente in grado di educare se stesso e “deve essere libero di scegliere se esplorare il mondo in questo o quel modo o in uno dei tanti altri modi.” J. Holt

 

“I genitori dovrebbero intervenire solo per aiutarlo [a realizzare ciò che vuole], non per interferire: dovrebbero permettergli di decidere cosa fare e cosa non fare. I genitori dovrebbero solo stare attenti che non faccia del male a se stesso o agli altri. Questo è sufficiente, tutto il resto è orribile.”

(…)

“In un mondo migliore le famiglie impareranno dai bambino. Voi avete una fretta spasmodica di insegnare loro. Sembra che nessuno impari da loro, eppure hanno molto da insegnarvi, mentre voi non avete nulla da insegnare loro.” Osho

 

 

L'unica certezza è il cambiamento, e nella caotica complessità del mondo moderno è alquanto facile distrarsi, perdersi e lasciarsi sfuggire le opportunità di realizzazione che questa nuova economia offre. Per questo motivo, è davvero importantissimo essere molto chiari su quel che si vuole, raffinare le proprie doti di leadership e creare la propria realtà di vita attorno alle proprie priorità per realizzare chi si è e ciò che si vuole veramente fare — il proprio vero scopo. Il fine di questo libro è proprio quello di supportarti in questa impresa (leggi l’estratto del libro su questo link).

 

Photo credit: @FFerzini

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